Papa Francesco e lo slogan del ‘servizio’

Durante la sua ultima visita a Cuba, il Papa ha pronunciato questa frase:

“Servire gli altri, non servirsi degli altri”.

Bello slogan, grande entusiasmo. Ma cosa significa in pratica?

“Servire gli altri”… mi vengono in mente i camerieri che si affannano tutta la sera a portare piatti, i film ambientati nelle case padronali d’altri tempi, dove le signore smorfiose vessavano i domestici e i padroni correvano dietro alle servette,  e sento la voce baritonale del giacobino Gérard dell’Andrea Chénier che canta “son sessantanni, o vecchio, che tu servi! Ai tuoi protervi, arroganti signori hai prodigato fedeltà, sudori… la forza dei tuoi nervi” e conclude tuonando “È l’ora della morte!”  rivolto all’aristocrazia della Rivoluzione Francese. Ed io con lui. Quindi mi ripeto: cosa intende dire il Papa? Non mi risulta che Gesù abbia mai servito nessuno: semmai Lo Slogan di Papa Francesco 2_300erano le pie donne ad occuparsi di lui. Insegnava ed era rispettato e la volta che lavò i piedi agli apostoli lo fece come atto simbolico. Gesù servì la volontà del Padre, ma il verbo “servire”, come lo intendiamo noi, ossia associato ad un cluster di immagini negative, di storie di umiliazioni e vite sprecate di schiavi costretti a soddisfare i capricci dei potenti, mi sembra che non gli si addica.

Quand’ero ragazza e respiravo aria di femminismo anni Settanta, mi indispettiva sempre la lettura dell’episodio in cui Gesù, arrivato per pranzo in casa di amici, aveva trovato la padrona di casa a letto indisposta. L’aveva subito guarita e questa, dice il Vangelo, “si alzò e cominciò a servirli”. Vedevo una povera donna che fino a un attimo prima stava male alzarsi e mettersi a trottare portando leccornie agli uomini intenti a discutere di “cose importanti” senza poter partecipare alla discussione. Mi sembrava un miracolo un po’ opportunista, secondo la logica “curo il mulo perché mi serve per portare i pesi”. Sicuramente l’evangelista intendeva evidenziare l’ intervento di Gesù, rimarcando il fatto che la donna, dopo tale intervento, stava talmente bene da aver la forza di servire in tavola; ma l’idea che non sedesse al tavolo con gli altri mi dava fastidio. Influenzata dalle idee femministe, non mi mettevo mai nei panni di quella donna e non cercavo di calarmi nella situazione narrata dal Vangelo. Adesso penso che io, al posto suo, sarei stata così contenta di avere Gesù come ospite e di essere stata guarita da lui che gli avrei servito tutti i pranzi che avesse voluto… ed in questo pensiero sta, credo, la risposta alla domanda. “Servire” è un atto gioioso se c’è l’amore o l’ammirazione o la gratitudine verso l’altro. In questo caso diventa anche sinonimo di “prendersi cura di”. Non c’è umiliazione, non c’è vessazione, perché diventa un gesto spontaneo e giusto.

Ciò detto, è più facile, almeno per me, capire la seconda parte della frase. “Non servirsi degli altri” significa non manipolarli, non sedurli per ottenere da loro gratificazioni; significa rispettarli,  vederli nella loro umanità, non reificarli, ossia non renderli uno strumento per il nostro piacere o tornaconto. In quest’ottica, “servire l’ altro” significa accorgersi dei suoi bisogni, dei suoi disagi e quindi cercare di soccorrerlo ed aiutarlo. La carità – che non è fare l’elemosina al questuante dell’angolo – è una virtù che presuppone l’attenzione verso l’altro, l’empatia ed il coinvolgimento personale, l’impegno nell’ aiutarlo o semplicemente nell’ ascoltarlo.

È l’esatto contrario di quello che predicano i mass media asserviti alla cultura dominante, che mostrano “eroi” che ottengono ciò che vogliono predando o seducendo gli altri, utilizzando anche le tecniche di comunicazione pubblicitarie. Alla base di questa mentalità c’è l’idea che tutto sia commerciabile o, in altri termini, tutto, ma proprio tutto, sia merce. I rapporti umani sono assimilati a transazioni commerciali, in cui c’è un venditore e un compratore e il venditore – che propone se stesso come merce, deve essere bravo ad accattivare il compratore.

E come? Attirandolo col look e con l’atteggiamento, facendogli credere che la sua vicinanza realizzerà i suoi desideri (io traduco: imbrogliandolo). Ci sono fior di articoli e manuali d’oltre oceano, dove evidentemente tutto il secolare umanesimo europeo non conta un bel nulla, che spiegano questa filosofia. “Who are you? What is your brand?” (Chi sei? Qual è il tuo marchio?) è la domanda che ti pongono, sottintendendo che se non hai un marchio efficace, non sei lo slogan del papa 22_400nessuno. Non ti sceglierà nessuno, perché non sei accattivante, non corrispondi ai canoni correnti di bellezza e di successo, e se poi sei insicuro e lo diventi sempre di più perché la tua autostima crolla mancando della componente dell’accettazione sociale, sei destinato ad essere un reietto. Se una persona prende alla lettera questa filosofia incomincerà ad agire per apparire in un certo modo e userà gli altri come specchi per avere la conferma di stare costruendo il suo famigerato brand di successo. Addio rapporti umani spontanei, addio amicizie vere. I Social Network sono le vetrine per le persone che cercano di crearsi un brand. Tutti a costruire un’immagine di se’ di successo, attenti a rispettare le regole auree su come scattare il selfie giusto. Un tempo ci si limitava a nascondere le imperfezioni del viso con un po’ di trucco e a darsi un tono con un bel vestito; adesso ci si costruisce un alter-ego virtuale per attirare chi? Amici o soltanto migliaia di “like”?

I libri che illustrano la “teoria del brand “ sono scritti con una tale sicurezza, sostenuta da un’enorme quantità di esempi esplicativi, che il lettore è portato ad esclamare in continuazione “è vero, è così!”. Non è così, questa non è la realtà. Questa è una visione della realtà, attraverso il filtro del profitto. Il filtro di Papa Francesco è diverso.

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